Pisticci sorge a 364 m s.l.m. nella parte centro-meridionale della provincia e si estende tra i fiumi Basento, ad est, e Cavone, a ovest, che separano il territorio pisticcese rispettivamente dai comuni di Bernalda (18 km) e Montalbano Jonico (24 km). I primi insediamenti in territorio di Pisticci risalgono al X secolo a.C., ad opera degli Enotri, e sono testimoniati da diverse necropoli. Successivamente l’area venne colonizzata dai Greci e Pisticci divenne un importante centro del territorio di Metaponto. Tra il V e il IV secolo a.C. vi visse e operò il cosiddetto Pittore di Pisticci, primo ceramografo italiota ad aver adottato in Magna Grecia la produzione di vasi a figure rosse. Dopo la sconfitta di Taranto, Pisticci passò sotto la dominazione romana e diventò un importante centro agricolo. Intorno all’anno 1000 i Normanni costituirono il feudo di Pisticci, posseduto in successione dai Sanseverino, dagli Spinelli, dagli Acquara e dai De Cardenas. Sempre nello stesso periodo, i Benedettini fondarono il cenobio di Santa Maria del Casale, poco distante dall’abitato, sui resti di un antico insediamento basiliano. Nel 1565, in una località che dopo prenderà per questo il nome Scannaturchi, si combatté una battaglia tra pirati Saraceni e un manipolo eterogeneo di pisticcesi, professionisti, chierici e contadini[senza fonte]. In quei decenni le invasioni dei pirati furono molto frequenti e per questo venne costruita, nel territorio metapontino, una rete di torri di avvistamento. Nel Seicento l’abitato contava circa 5000 abitanti [6] e comprendeva i rioni Terravecchia, Santa Maria dello Rito (oggi Loreto), Osannale, Santa Maria del Purgatorio e Casalnuovo. Nel 1656 Pisticci fu risparmiata dalla peste che imperversava nel Regno di Napoli e che aveva fatto strage nei paesi vicini; molti videro San Rocco sopra la parte più alta del paese nell’atto di benedirlo. Per essere stati risparmiati dalla peste, i pisticcesi lo proclamarono patrono[7]. La notte del 9 febbraio 1688, a seguito di un’abbondante nevicata, una frana di enormi proporzioni fece sprofondare i rioni Casalnuovo e Purgatorio, causando circa 400 morti. Dopo la frana la popolazione rifiutò l’offerta del conte De Cardenas di spostare l’abitato più a valle, dove sarebbero state costruite nuove abitazioni, ma in cambio gli abitanti avrebbero dovuto pagare tasse supplementari al conte. Sul terreno della frana furono quindi costruite 200 casette in filari, tutte uguali, bianche, a fronte cuspidata. Il nuovo rione prese significativamente il nome di Dirupo, a ricordo della frana. Nei primi anni dell’Ottocento fu particolarmente cruenta l’azione del brigantaggio in tutto il territorio. Intorno al 1800 gli attacchi di brigantaggio nel territorio lucano e pisticcese si fecero sempre più frequenti. Una di queste bande era quella del Feudo di Policoro, composta di ben 100 uomini e capeggiata da Nicola Pagnotta. Nel Febbraio 1808 venne mandata una ambasceria allo scopo di informare i cittadini dell’arrivo della compagnia di briganti a Pisticci offrendo in dono al popolo un vessillo borbonico. Il comandante della Guardia Civica, Don Pietro Latronico rifiuta la proposta e si accinge a difendere il paese da Pagnotta. Al suo arrivo, molti cittadini si fecero ingannare dal brigante, che diceva di offrire loro molte risorse e protezione, e lo accolsero a braccia aperte contrastando la stessa difesa organizzata dalla Guardia Civica pisticcese. Molto presto si rivelarono le vere intenzioni dei briganti che cominciano a fare razzie in tutto il paese, donne e bambini non sono rispettati e molti saranno i cosiddetti traditori del paese, che aiutarono i briganti ad entrare nel paese ormai messo a ferro e fuoco dalla Compagnia di Pagnotta, che finite le razzie vanno via da Pisticci. I cittadini subirono poi l’attacco delle truppe francesi, considerati come traditori della Guardia Civica e delle truppe Borboniche, che chiesero tributi di ben 800 ducati ad ogni cittadino. Sulla fine del Brigante Pagnotta si racconta che fu tradito dalla sua amante e catturato dalla Guardia Civica per poi essere condannato a morte. La leggenda narra di una distribuzione del suo corpo nei paesi da lui stesso razziati e colpiti e al territorio pisticcese toccarono le sue gambe nella località sottostante la chiesa della Concezione, nell’attuale Contrada Pagnotta. Nel 1808 fu soppresso il regime feudale e nel 1861, entrata a far parte del regno d’Italia, Pisticci diventò municipio e il primo sindaco fu Nicola Rogges. A cavallo tra l’Ottocento e il Novecento si ebbe la prima grande ondata migratoria, soprattutto verso le Americhe. Durante il periodo del fascismo, Pisticci concorse con Matera per divenire capoluogo provinciale, titolo che poi venne assegnato alla città dei Sassi nel 1927. Nel territorio di Pisticci fu realizzato dal regime un campo di confino per antifascisti, che furono impiegati per disboscare e bonificare la malarica e paludosa pianura metapontina. In onore di Guglielmo Marconi questo campo venne chiamato “Villaggio Marconi” ed oggi è la popolosa frazione di Marconia, che ospita circa la metà dell’intera popolazione comunale. La frazione si è molto sviluppata tra gli anni sessanta e settanta. Come dopo la grande guerra, anche negli anni successivi alla seconda guerra mondiale ci fu una forte emigrazione verso il Nord America e la Germania. Nel 1976, a seguito di forti piogge, franò una parte del rione Croci, a molti abitanti di quel quartiere fu assegnata una casa nella frazione Marconia, il che favorì la prima espansione della frazione. La successiva avvenne tra gli anni ottanta e i novanta dove molti rioni del centro storico subirono un notevole spopolamento, gli abitanti, infatti, preferirono trasferirsi nella frazione Marconia. In questi anni, la frazione Marconia, notevolmente cresciuta, ha iniziato ad aspirare all’indipendenza amministrativa. Nei primi anni del XXI secolo, tuttavia, lo spopolamento del centro storico si è sostanzialmente fermato e il flusso demografico risulta in leggera controtendenza rispetto agli anni precedenti. Il 27 aprile 1991 Papa Giovanni Paolo II, in Basilicata, visitò Pisticci dove incoronò la statua di Santa Maria la Sanità del Casale, conservata nell’omonima Abbazia. Il 10 agosto 2017 il sindaco Viviana Verri conferisce la cittadinanza onoraria di Pisticci all’attore Giancarlo Giannini.
La cucina tradizionale è la tipica meridionale: piatti semplici della tradizione contadina con pasta fatta in casa, verdure e carne di maiale. Pisticci fa onore alla tradizione che vuole la salsiccia lucana assolutamente superlativa. Infatti il nome di luganega, già dal tempo dei romani, che al nord significa salsiccia, con molta probabilità deriva da Lucania. Tra gli ingredienti spicca l‘ anësë, spezia nota come coriandolo e il peperoncino in polvere, dolce o piccante a seconda dei gusti, che veniva ottenuto direttamente dalla molitura dei peperoni precedentemente essiccati. Vi sono fondamentalmente due tipi di salsiccia, quella “magra”, più prelibata e quella grassa, ottenuta con più dovizia di lardo e più adatta alla cottura sotto la brace. L’una e l’altra comunque capaci di ispirare gli strambotti e le composizioni improvvisate al suono del cupa cupa. La soppressata, ormai rara, era un autentico capolavoro della tecnica casalinga e contadina dell’insaccamento e della successiva conservazione, che nel caso della soppressata avveniva secondo modalità antichissime che prevedevano l’uso della paglia o della cenere come ambienti idonei alla stagionatura. Il pane è ottenuto generalmente con una farina ottenuta da una varietà indigena di grano duro, il cosiddetto Cappelli che rende il pane, opportunamente impastato anche con l’aggiunta di patate, particolarmente fragrante e capace di conservarsi diversi giorni. I tipi di pasta tipici sono l tapparédd (a forma di rombo), l rucchëlë (ruccoli, gnocchetti concavi), l tagghiariédd (tagliolini), maccheroni ai ferri e orecchiette, con sughi spesso insaporiti da cacciagione, una volta lepre e cinghiale, ma anche uccelletti prede della micciarola. Tagliolini e ruccoli si prestano anche a piatti con verdure cotte: i ruccoli in particolare vengono impiegati per un piatto molto simile a quello pugliese degli “strascinati” e cime di rape, mentre i tagliolini vanno bene con i ceci, i fagioli o i piselli. Per non dire della cicerchia, leguminosa assai discussa, almeno nel vissuto popolare, per un’antica credenza che la vuole capace di far perdere la ragione. Le verdure tipiche sono fave e cicorie (faf e ciuquèrë), i lambasciùn (cipolline). I lampascioni sono bulbi selvatici, che si scavano nel terreno usando una zappa lunga e stretta, ” u zappudd'”. Corrispondono presumibilmente alla pianta nota come muscaro: leggermente amarognoli, ricchi di proprietà sconosciute, digestivi, forse afrodisiaci, si cucinano e si conservano secondo diverse modalità, con l’olio fritto e l’aceto, con il peperoncino, impanati nell’uovo e così via. I dolci tipici natalizi sono le pettole, le ‘ngartagghiat (cartellate), i purcëdduzzë (porcellini).